lunedì 7 maggio 2012

Omero nordico, le origini dell’Iliade e Odissea

Giunto alla quinta edizione, il libro di Felice Vinci Omero nel Baltico. Le origini nordiche dell’Odissea e dell’Iliade (Palombi Editori), costituisce il caso culturale più rilevante degli ultimi quindici anni. Intorno ad esso ci sarebbero tutti i presupposti per innescare una disputa di straordinaria importanza, con rilevanti risvolti anche di natura ideologica. Mancano tuttavia i centri culturali, le energie intellettuali, mancano i divulgatori, manca il clima morale, manca la spinta ideale che sarebbero necessari per creare tutto un movimento di cultura alternativa, in grado di fiancheggiare il coraggioso lavoro di Vinci, così da imporre una concezione rivoluzionaria della protostoria europea all’attenzione generale: non solo a quella distratta dei mass-media – che ogni tanto ne parlano, ma con la superficialità tipica di un’informazione solo consumistica –, ma anche a quella conservatrice e sussiegosa del chiuso mondo accademico.
Che del libro di Vinci ha una considerazione in genere irridente, dicendolo il frutto di una fantasia certo di talento, ma irrimediabilmente legata alla natura amatoriale della ricerca. Danno credito a Schliemann, che fu il campione del dilettantismo archeologico, e le cui scoperte furono dovute più all’entusiasmo che alla scientificità, e lo stesso credito invece negano a Vinci, che da anni ammassa impressionanti prove documentali a sostegno della sua eccellente teoria.
In base a questa, l’Iliade e l’Odissea non ebbero come teatro il bacino mediterraneo, come tradizionalmente si ritiene, ma il Mar Baltico. Da secoli gli eruditi rimanevano perplessi sulla totale estraneità della geografia narrata da Omero rispetto a quella mediterranea. Quasi nulla di quanto descritto nei due poemi coincide con la realtà del territorio che va dall’Asia Minore – in cui si è voluta collocare Troia – al Mediterraneo occidentale. Se invece spostiamo il quadro omerico da Sud a Nord, come da anni genialmente va facendo Vinci con una minuziosa documentazione, ecco che si fa piena luce, i dati finalmente coincidono, e tutto appare logico.
Del resto, già Strabone notava le incongruenze tra Omero e la realtà del territorio greco: ad esempio, notò che l’isola di Faro, che viene detta da Omero distante dall’Egitto una giornata di navigazione, in realtà è proprio davanti ad Alessandria; e nella sua Geografia, scrisse chiaramente che la Troia greco-romana – quella del sito di Hissarlik, poi individuata da Schliemann – secondo lui non aveva nulla a che fare con l’Ilio omerica. E, come rileva Vinci, Plutarco affermò chiaro e tondo che l’isola Ogigia citata nell’Odissea era nell’Oceano atlantico settentrionale. Su questa scorta, Vinci fa un elenco impressionante di toponimi e conformazioni geografiche che non hanno alcuna rispondenza in area mediterranea (il che ha sempre costituito un problema irrisolto per gli studiosi) e ne hanno invece una straordinariamente precisa in area baltica e nord-atlantica: la Troia omerica, ad esempio, lungi dall’essere stata nell’attuale Turchia, il cui sito di Hissarlik non corrisponde alla descrizione dell’Iliade, è invece nella Finlandia meridionale. Qui si hanno le condizioni omeriche: la pianura che discende verso il mare, i due fiumi, la montagna alle spalle, e la possibilità di percorrere il perimetro dell’acrocoro su cui sorgeva la città, come fece Achille e come non avrebbe potuto fare a Hissarlik, per la presenza di uno strapiombo. Giusto in questo ambiente, sorge oggi la cittadina finlandese di Toija. Omero descrisse l’Ellesponto, davanti cui sorgeva Troia, come «sconfinato», e lo è il golfo di Finlandia, diversamente dai Dardanelli, stretto braccio di mare. Omero descrisse il Peloponneso come un’isola pianeggiante, cosa che non è nel caso di quello che attualmete porta tale nome, che è montuoso e collegato alla terra ferma: lo è invece l’isola danese di Sjaelland. La Skeria, isola dei Feaci – mai rintracciata nel Mediterraneo – è identificata da Vinci nel toponimo di Skere vicino alla città norvegese di Bergen, luogo in cui si manifesta il fenomeno del riflusso del mare nel fiume, descritto da Omero. Lo stesso gorgo di Cariddi, introvabile nel Mediterraneo, corrisponde al maellstroem, il vortice marino che si forma nel mare norvegese a causa delle maree. Di fronte alla baia svedese di Norttalje c’è una Lemland (Lemno), più oltre Salis (l’antica Sale), Tebe è la Taby che sorge vicino a Stoccolma, Kalkstad non è che la Calcide, Saljo è Salamina, mentre la Scania, nella Svezia meridionale, presenta la serie Tyringe, Trane, Asum, Ahus, che altro non sarebbero che Tirinto, Trezene, Asine e l’Acaia…
Sono innumerevoli le sbalorditive concordanze di questo genere, non casuali, ma precise, non vagamente attinenti nella loro relazione, ma esattamente riscontrabili nella descrizione omerica. Vinci ne conclude: «Fu insomma lungo le coste del Baltico – dove, nel II millennio a.C. fioriva l’età del bronzo – che si svolsero le vicende narrate da Omero, prima dello spostamento degli Achei verso il Mediterraneo…». Questo, concordando con la tradizione indoeuropea, rimanda non solo a Bal Gangadhar Tilak, che nel suo libro La dimora artica dei Veda pubblicato nel 1903, dimostrò la migrazione delle genti arie dal Nord iperboreo all’Europa centro-meridionale, a seguito di eventi geo-climatici sfavorevoli; ma rimanda anche all’arcaicissima tradizione ellenica circa il ritorno degli Eraclidi, riferentesi alla calata dorica che innestò i processi di creazione delle civiltà micenea e achea, un fatto di cui già gli antichi erano a piena conoscenza.
Il discorso di Vinci è strettamente connesso con il problema indoeuropeo, con la realtà protostorica di un popolo unitario che, a far data probabilmente dal secolo XVIII a. C., si divise in due bracci calando a Sud e a Sud-Est, verso le direttrici mediterranea e indo-iranica e lasciando copiose tracce di questa sua Wanderung: ciò che ormai gli studiosi, magari anche controvoglia, sono disposti ad accettare come un dato di fatto inoppugnabile. La civiltà indoeuropea è dunque di origine nordica, e poco importa che il rinvenimento della sua Urheimat sia disputato in questa piuttosto che in quell’area dell’Europa artica oppure baltico-sarmatica. In questo senso, il lavoro di Vinci non è che la monumentale conferma di dati già in possesso dei ricercatori scientifici da molto tempo, ma per vari motivi – primi tra tutti quelli di carattere politico – oggi tenuti alla larga dalla grande visibilità e poco e male divulgati. In genere, si procede per ammissioni sommesse. Del tipo, ad esempio, di quelle di un Domenico Musti, che pure condivide il dato dell’invasione dorica, che ne fa anzi l’antefatto della nascita della polis. Ma che poi, a proposito di Omero, non rinuncia a parlare di proiezioni immaginali, di fantasia poetica, il che a suo dire spiegherebbe le incongruenze di quella «strana vittoria» dei Greci europei sugli orientali Troiani. Tra l’altro non seguita da un’occupazione stabile, come nello stile imperialistico-coloniale dei Greci storici.
Altrove invece, come ad esempio nel caso di Pierre Vidal-Naquet, si rileva che Achei e Troiani in Omero «non si differenziano tanto nettamente… venerano gli stessi dei…», non hanno problemi di lingua, sarebbero dunque di stirpi sorelle: cosa che non potrebbe essere se il teatro della guerra fosse stato il Mediterraneo, tra regni dorici stranieri appena insediati e una più antica Troia anatolica… e tuttavia si insiste a parlare di un Omero «che non è uno storico, non è un geografo», che insomma il suo racconto sarebbe pura fantasia: ma allora perché dar retta a Schliemann, che a Hissarlik ci arrivò con l’Iliade in mano credendo di seguirne passo passo le descrizioni? Perché, in presenza del dato storico della migrazione dorica da Nord a Sud, Hissarlik orientale va bene, pur non combaciando in nulla con Omero, e invece Tojia finlandese non va bene, nonostante la sua ambientazione sia proprio quella descritta nel poema?
Da questo ginepraio in cui si attardano molti storici professionali, fatto di reticenze, mezze ammissioni, dubbi e silenzi, Vinci esce brillantemente, solo seguendo la linea retta delle evidenze. In fondo, tutto è più semplice di quanto certe elucubrazioni vogliano far sembrare. I proto-Greci, una volta abbandonata la loro patria nordica, sottoposta a mutamenti climatici (dimostrati dall’orografia terrestre e dalla scienza climatologica) e divenuta inabitabile, si spostarono a meridione, portandosi dietro il ricordo della geografia della loro terra e dei racconti sulle gesta dei loro antenati. E dettero gli antichi nomi ai luoghi del nuovo insediamento. Tutto molto lineare, credibile, evidente: «Gli Achei attribuirono alle varie località in cui si insediarono gli stessi nomi che avevano lasciato nella patria perduta, di cui perpetuarono il retaggio nella loro mitologia e nei poemi omerici: inoltre ribattezzarono con i corrispondenti nomi baltici anche le altre regioni dell’area mediterranea».
Le numerose altre prove raccolte da Vinci riguardano poi il clima. Omero narra in continuazione di violente tempeste, di forti venti, di nebbie… descrive come Telemaco e Pisistrato indossassero «tuniche e folti mantelli», rappresenta i «biondi lungocriniti Achei» come soggetti a Zeus «radunatore di nuvole»: che c’entra il soleggiato e temperato Egeo? Oggi sappiamo che proprio all’epoca in cui Vinci colloca l’Iliade – secondo millennio a.C. – il “paradiso iperboreo” degradò verso un clima di crescente rigidezza, passando a quella situazione di gelo e buio di cui parlano le saghe nordiche e, in quanto loro riflesso, anche le mitologie classiche. Vinci rimarca che in Omero si parla con chiarezza di una battaglia che durò due giorni, inframezzata da una «notte bianca» che permise di non interrompere la lotta, come allora si faceva al sopraggiungere delle tenebre: la notte artica. Ma occorrerebbe ben altro spazio per dare pienamente conto del materiale esposto dall’autore, talmente ricchi sono i rimandi e convincenti le dimostrazioni. Nel senso di uno sguardo generale e del valore culturale e ideologico di questo lavoro, basti dire che tale materia nasconde nulla di meno che l’identità vera e autentica della nostra civiltà.
Attorno a tale caposaldo di una moderna controcultura identitaria si svolge però un’occulta lotta tra chi tale identità intende portare alla luce e rivendicare apertamente e chi, invece, è risoluto a sottacerla. Nel libro di Vinci troviamo lo svelamento del nostro passato: «Insomma, l’aver riscontrato – scrive l’autore – attraverso l’analisi della geografia omerica, la provenienza settentrionale degli Achei… non solo conferma le ipotesi del Tilak sull’origine degli Arii, ma, più in generale, consente finalmente di gettare una nuova luce anche sull’annosa questione della patria primordiale degli altri popoli appartenenti alla famiglia indoeuropea, nonché sul motivo che li spinse a migrare verso sedi più accoglienti».

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Tratto da Linea del 13 marzo 2009.

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