Giunto alla quinta edizione, il libro di Felice Vinci Omero nel Baltico. Le origini nordiche dell’Odissea e dell’Iliade
(Palombi Editori), costituisce il caso culturale più rilevante degli
ultimi quindici anni. Intorno ad esso ci sarebbero tutti i presupposti
per innescare una disputa di straordinaria importanza, con rilevanti
risvolti anche di natura ideologica. Mancano tuttavia i centri
culturali, le energie intellettuali, mancano i divulgatori, manca il
clima morale, manca la spinta ideale che sarebbero necessari per creare
tutto un movimento di cultura alternativa, in grado di fiancheggiare il
coraggioso lavoro di Vinci, così da imporre una concezione
rivoluzionaria della protostoria europea all’attenzione generale: non
solo a quella distratta dei mass-media – che ogni tanto ne
parlano, ma con la superficialità tipica di un’informazione solo
consumistica –, ma anche a quella conservatrice e sussiegosa del chiuso
mondo accademico.
In base a questa, l’Iliade e l’Odissea non
ebbero come teatro il bacino mediterraneo, come tradizionalmente si
ritiene, ma il Mar Baltico. Da secoli gli eruditi rimanevano perplessi
sulla totale estraneità della geografia narrata da Omero rispetto a
quella mediterranea. Quasi nulla di quanto descritto nei due poemi
coincide con la realtà del territorio che va dall’Asia Minore – in cui
si è voluta collocare Troia – al Mediterraneo occidentale. Se invece
spostiamo il quadro omerico da Sud a Nord, come da anni genialmente va
facendo Vinci con una minuziosa documentazione, ecco che si fa piena
luce, i dati finalmente coincidono, e tutto appare logico.
Del resto, già Strabone notava le
incongruenze tra Omero e la realtà del territorio greco: ad esempio,
notò che l’isola di Faro, che viene detta da Omero distante dall’Egitto
una giornata di navigazione, in realtà è proprio davanti ad Alessandria;
e nella sua Geografia, scrisse chiaramente che la Troia
greco-romana – quella del sito di Hissarlik, poi individuata da
Schliemann – secondo lui non aveva nulla a che fare con l’Ilio omerica.
E, come rileva Vinci, Plutarco affermò chiaro e tondo che l’isola Ogigia
citata nell’Odissea era nell’Oceano atlantico settentrionale.
Su questa scorta, Vinci fa un elenco impressionante di toponimi e
conformazioni geografiche che non hanno alcuna rispondenza in area
mediterranea (il che ha sempre costituito un problema irrisolto per gli
studiosi) e ne hanno invece una straordinariamente precisa in area
baltica e nord-atlantica: la Troia omerica, ad esempio, lungi
dall’essere stata nell’attuale Turchia, il cui sito di Hissarlik non
corrisponde alla descrizione dell’Iliade, è invece nella
Finlandia meridionale. Qui si hanno le condizioni omeriche: la pianura
che discende verso il mare, i due fiumi, la montagna alle spalle, e la
possibilità di percorrere il perimetro dell’acrocoro su cui sorgeva la
città, come fece Achille e come non avrebbe potuto fare a Hissarlik, per
la presenza di uno strapiombo. Giusto in questo ambiente, sorge oggi la
cittadina finlandese di Toija. Omero descrisse l’Ellesponto, davanti
cui sorgeva Troia, come «sconfinato», e lo è il golfo di Finlandia,
diversamente dai Dardanelli, stretto braccio di mare. Omero descrisse il
Peloponneso come un’isola pianeggiante, cosa che non è nel caso di
quello che attualmete porta tale nome, che è montuoso e collegato alla
terra ferma: lo è invece l’isola danese di Sjaelland. La Skeria, isola
dei Feaci – mai rintracciata nel Mediterraneo – è identificata da Vinci
nel toponimo di Skere vicino alla città norvegese di Bergen, luogo in
cui si manifesta il fenomeno del riflusso del mare nel fiume, descritto
da Omero. Lo stesso gorgo di Cariddi, introvabile nel Mediterraneo,
corrisponde al maellstroem, il vortice marino che si forma nel
mare norvegese a causa delle maree. Di fronte alla baia svedese di
Norttalje c’è una Lemland (Lemno), più oltre Salis (l’antica Sale), Tebe
è la Taby che sorge vicino a Stoccolma, Kalkstad non è che la Calcide,
Saljo è Salamina, mentre la Scania, nella Svezia meridionale, presenta
la serie Tyringe, Trane, Asum, Ahus, che altro non sarebbero che
Tirinto, Trezene, Asine e l’Acaia…
Sono innumerevoli le sbalorditive
concordanze di questo genere, non casuali, ma precise, non vagamente
attinenti nella loro relazione, ma esattamente riscontrabili nella
descrizione omerica. Vinci ne conclude: «Fu insomma lungo le coste del
Baltico – dove, nel II millennio a.C. fioriva l’età del bronzo – che si
svolsero le vicende narrate da Omero, prima dello spostamento degli
Achei verso il Mediterraneo…». Questo, concordando con la tradizione indoeuropea, rimanda non solo a Bal Gangadhar Tilak, che nel suo libro La dimora artica dei Veda
pubblicato nel 1903, dimostrò la migrazione delle genti arie dal Nord
iperboreo all’Europa centro-meridionale, a seguito di eventi
geo-climatici sfavorevoli; ma rimanda anche all’arcaicissima tradizione
ellenica circa il ritorno degli Eraclidi, riferentesi alla calata dorica
che innestò i processi di creazione delle civiltà micenea e achea, un
fatto di cui già gli antichi erano a piena conoscenza.
Il discorso di Vinci è strettamente connesso con il problema indoeuropeo, con la realtà protostorica di un popolo unitario che, a far data probabilmente dal secolo XVIII a. C., si divise in due bracci calando a Sud e a Sud-Est, verso le direttrici mediterranea e indo-iranica e lasciando copiose tracce di questa sua Wanderung: ciò che ormai gli studiosi, magari anche controvoglia, sono disposti ad accettare come un dato di fatto inoppugnabile. La civiltà indoeuropea è dunque di origine nordica, e poco importa che il rinvenimento della sua Urheimat sia disputato in questa piuttosto che in quell’area dell’Europa artica oppure baltico-sarmatica. In questo senso, il lavoro di Vinci non è che la monumentale conferma di dati già in possesso dei ricercatori scientifici da molto tempo, ma per vari motivi – primi tra tutti quelli di carattere politico – oggi tenuti alla larga dalla grande visibilità e poco e male divulgati. In genere, si procede per ammissioni sommesse. Del tipo, ad esempio, di quelle di un Domenico Musti, che pure condivide il dato dell’invasione dorica, che ne fa anzi l’antefatto della nascita della polis. Ma che poi, a proposito di Omero, non rinuncia a parlare di proiezioni immaginali, di fantasia poetica, il che a suo dire spiegherebbe le incongruenze di quella «strana vittoria» dei Greci europei sugli orientali Troiani. Tra l’altro non seguita da un’occupazione stabile, come nello stile imperialistico-coloniale dei Greci storici.
Il discorso di Vinci è strettamente connesso con il problema indoeuropeo, con la realtà protostorica di un popolo unitario che, a far data probabilmente dal secolo XVIII a. C., si divise in due bracci calando a Sud e a Sud-Est, verso le direttrici mediterranea e indo-iranica e lasciando copiose tracce di questa sua Wanderung: ciò che ormai gli studiosi, magari anche controvoglia, sono disposti ad accettare come un dato di fatto inoppugnabile. La civiltà indoeuropea è dunque di origine nordica, e poco importa che il rinvenimento della sua Urheimat sia disputato in questa piuttosto che in quell’area dell’Europa artica oppure baltico-sarmatica. In questo senso, il lavoro di Vinci non è che la monumentale conferma di dati già in possesso dei ricercatori scientifici da molto tempo, ma per vari motivi – primi tra tutti quelli di carattere politico – oggi tenuti alla larga dalla grande visibilità e poco e male divulgati. In genere, si procede per ammissioni sommesse. Del tipo, ad esempio, di quelle di un Domenico Musti, che pure condivide il dato dell’invasione dorica, che ne fa anzi l’antefatto della nascita della polis. Ma che poi, a proposito di Omero, non rinuncia a parlare di proiezioni immaginali, di fantasia poetica, il che a suo dire spiegherebbe le incongruenze di quella «strana vittoria» dei Greci europei sugli orientali Troiani. Tra l’altro non seguita da un’occupazione stabile, come nello stile imperialistico-coloniale dei Greci storici.
Altrove invece, come ad esempio nel caso
di Pierre Vidal-Naquet, si rileva che Achei e Troiani in Omero «non si
differenziano tanto nettamente… venerano gli stessi dei…», non hanno
problemi di lingua, sarebbero dunque di stirpi sorelle: cosa che non
potrebbe essere se il teatro della guerra fosse stato il Mediterraneo,
tra regni dorici stranieri appena insediati e una più antica Troia
anatolica… e tuttavia si insiste a parlare di un Omero «che non è uno
storico, non è un geografo», che insomma il suo racconto sarebbe pura
fantasia: ma allora perché dar retta a Schliemann, che a Hissarlik ci
arrivò con l’Iliade in mano credendo di seguirne passo passo le
descrizioni? Perché, in presenza del dato storico della migrazione
dorica da Nord a Sud, Hissarlik orientale va bene, pur non combaciando
in nulla con Omero, e invece Tojia finlandese non va bene, nonostante la
sua ambientazione sia proprio quella descritta nel poema?
Da questo ginepraio in cui si attardano molti storici professionali, fatto di reticenze, mezze ammissioni, dubbi e silenzi, Vinci esce brillantemente, solo seguendo la linea retta delle evidenze. In fondo, tutto è più semplice di quanto certe elucubrazioni vogliano far sembrare. I proto-Greci, una volta abbandonata la loro patria nordica, sottoposta a mutamenti climatici (dimostrati dall’orografia terrestre e dalla scienza climatologica) e divenuta inabitabile, si spostarono a meridione, portandosi dietro il ricordo della geografia della loro terra e dei racconti sulle gesta dei loro antenati. E dettero gli antichi nomi ai luoghi del nuovo insediamento. Tutto molto lineare, credibile, evidente: «Gli Achei attribuirono alle varie località in cui si insediarono gli stessi nomi che avevano lasciato nella patria perduta, di cui perpetuarono il retaggio nella loro mitologia e nei poemi omerici: inoltre ribattezzarono con i corrispondenti nomi baltici anche le altre regioni dell’area mediterranea».
Da questo ginepraio in cui si attardano molti storici professionali, fatto di reticenze, mezze ammissioni, dubbi e silenzi, Vinci esce brillantemente, solo seguendo la linea retta delle evidenze. In fondo, tutto è più semplice di quanto certe elucubrazioni vogliano far sembrare. I proto-Greci, una volta abbandonata la loro patria nordica, sottoposta a mutamenti climatici (dimostrati dall’orografia terrestre e dalla scienza climatologica) e divenuta inabitabile, si spostarono a meridione, portandosi dietro il ricordo della geografia della loro terra e dei racconti sulle gesta dei loro antenati. E dettero gli antichi nomi ai luoghi del nuovo insediamento. Tutto molto lineare, credibile, evidente: «Gli Achei attribuirono alle varie località in cui si insediarono gli stessi nomi che avevano lasciato nella patria perduta, di cui perpetuarono il retaggio nella loro mitologia e nei poemi omerici: inoltre ribattezzarono con i corrispondenti nomi baltici anche le altre regioni dell’area mediterranea».
Le numerose altre prove raccolte da
Vinci riguardano poi il clima. Omero narra in continuazione di violente
tempeste, di forti venti, di nebbie… descrive come Telemaco e Pisistrato
indossassero «tuniche e folti mantelli», rappresenta i «biondi
lungocriniti Achei» come soggetti a Zeus «radunatore di nuvole»: che
c’entra il soleggiato e temperato Egeo? Oggi sappiamo che proprio
all’epoca in cui Vinci colloca l’Iliade – secondo millennio a.C. – il
“paradiso iperboreo” degradò verso un clima di crescente rigidezza,
passando a quella situazione di gelo e buio di cui parlano le saghe
nordiche e, in quanto loro riflesso, anche le mitologie classiche. Vinci
rimarca che in Omero si parla con chiarezza di una battaglia che durò
due giorni, inframezzata da una «notte bianca» che permise di non
interrompere la lotta, come allora si faceva al sopraggiungere delle
tenebre: la notte artica. Ma occorrerebbe ben altro spazio per dare
pienamente conto del materiale esposto dall’autore, talmente ricchi sono
i rimandi e convincenti le dimostrazioni. Nel senso di uno sguardo
generale e del valore culturale e ideologico di questo lavoro, basti
dire che tale materia nasconde nulla di meno che l’identità vera e
autentica della nostra civiltà.
Attorno a tale caposaldo di una moderna
controcultura identitaria si svolge però un’occulta lotta tra chi tale
identità intende portare alla luce e rivendicare apertamente e chi,
invece, è risoluto a sottacerla. Nel libro di Vinci troviamo lo
svelamento del nostro passato: «Insomma, l’aver riscontrato – scrive
l’autore – attraverso l’analisi della geografia omerica, la provenienza
settentrionale degli Achei… non solo conferma le ipotesi del Tilak
sull’origine degli Arii, ma, più in generale, consente finalmente di
gettare una nuova luce anche sull’annosa questione della patria
primordiale degli altri popoli appartenenti alla famiglia indoeuropea,
nonché sul motivo che li spinse a migrare verso sedi più accoglienti».
* * *
Tratto da Linea del 13 marzo 2009.
Nessun commento:
Posta un commento