Come già altrove osservato per quanto
riguarda la civiltà romana, anche nelle civiltà nordiche,
specificatamente quella celtica e quella norrena, si potrebbe pensare
che, riflettendo quelle che, nell’immaginario collettivo, si strutturano
come società guerriere, il pantheon religioso finisse per escludere la presenza di figure femminili in posizioni di particolare rilievo.
In realtà, già l’idea di “società
guerriere” per quanto riguarda le civiltà menzionate andrebbe ampiamente
riveduta rispetto all’immaginario collettivo: se, infatti, in entrambe
risulta presente, come in qualunque altro contesto del mondo antico, una
componente guerriera legata a necessità espansive, predatorie o
difensive, non è in alcun modo possibile paragonare né la società
celtica né quella norrena a contesti come, ad esempio, quello spartano o
quello di Roma alto-imperiale, in cui la funzione bellica risultava
normalmente prevalente.
Per quanto i Celti,
la componente guerriera era, in fin dei conti, ristretta alla scelta di
un capo (“Ri”) di ogni clan (“Tauath”) tra le diverse famiglie
componenti (“Fine”) capace di guidare gli uomini in una eventuale guerra
e di stipulare alleanze con altri clan, ma, già all’interno del clan
stesso, la nobiltà non era necessariamente dedita alle armi, essendo
formata in buona parte da proprietari terrieri (le altre due classi
sociali erano date da artisti e druidi e da contadini e artigiani)[1].
Il valore del singolo (il cosiddetto
“prezzo d’onore” in base al quale si stabilivano punizioni e ammende)
non veniva attribuito sulla base dei successi guerreschi quanto su
elementi ben differenti, che andavano dalle capacità lavorative (in
particolare per quanto riguardava il possesso di tecniche artigianali)
alle conoscenze sacre (tanto che aedi e druidi erano esentati da
qualunque attività militare), alle ricchezze materiali (misurate in
termini di terre e capi di bestiame posseduti) fino alle doti estetiche
(sia uomini che donne erano attentissimi al loro aspetto e alla loro
forma fisica)[2].
Anche gli insediamenti non mostrano una particolare visione virile e
marziale dell’esistenza: ogni “Fine” viveva per lo più in fattorie
isolate e non in aree fortificate, che venivano utilizzate solo nel caso
in cui un “Tauath” si trovasse in guerra, così come, a conti fatti, le
tecniche agricole e zootecniche celtiche, che comprendevano la rotazione
biennale e l’addomesticamento di pressoché ogni animale, ci appaiono
oggi ben più sviluppate delle tecniche belliche, che includevano
unicamente l’attacco frontale non protetto[3].
In più, anche le numerose “guerre tra
clan” ci appaiono oggi più che altro dispute territoriali risolte da una
prima “componente scenografica” in cui linee di guerrieri di entrambe
le parti si fronteggiavano in assetto da guerra (cioè nudi, con spade e
giavellotti e coperti di monili e colori di guerra) insultandosi
lungamente ma poi tutto veniva deciso dallo scontro di due “campioni”[4]. Insomma, rispetto a certe immagini moderne, i Celti
risultano molto più un popolo piuttosto pacifico di agricoltori,
allevatori e abili mercanti (la loro rete commerciale era estesissima)
con, in più, uno sviluppatissimo senso religioso che si differenziava
tra una spiritualità popolare, con un ampio pantheon di
divinità in gran parte legate ad ogni “tuath”, ed una religiosità alta,
tipicamente druidica, che si concentrava su un culto delle forze
naturali[5].
Sebbene con un diverso (ma non
inferiore) livello di speculazione filosofico-religiosa, considerazioni
non dissimili si adattano anche alla società norrena. Pur disegnati
dalle cronache medievali come guerrieri feroci (come, in realtà,
divenivano in caso di guerra) e predoni sanguinari (cosa anche questa
veritiera, ma legata, più che altro, a necessità di sopravvivenza in
momenti di estrema improduttività di zone già normalmente piuttosto
sterili), i Vichinghi facevano parte di una società, così come descritta
nel Rígsþula, eminentemente agricola e, a differenza di
strutturazioni fortemente gerarchico-piramidali e rigide tipiche di
popoli bellicosi, notevolmente fluida. La grande maggioranza dei norreni
appartenevano alla classe media, la classe dei “Karls”, formata da
artigiani e piccoli proprietari terrieri. Gli “Jarls”, i nobili (per
altro non presenti in alcune zone particolari come l’Islanda), si
distinguevano per la loro ricchezza, misurata in termini di seguaci,
tesori, navi, e, soprattutto, tenute agricole e non per particolari doti
guerriere, se non quelle legate alla difesa dei seguaci stessi. Il
compito essenziale dello Jarl era, infatti, quello di sostenere la
sicurezza, la prosperità, e l’onore dei suoi seguaci e per questo si
serviva di un gruppo molto ristretto di “soldati professionisti”, per lo
più giovani, detti “hirðmaðr”, ma nella sua carica le abilità di
amministrazione agricola e di espressione oratoria erano molto più
importanti che il saper maneggiare le armi.
Sotto entrambe le classi vi erano i
“þræll”, i servi e gli schiavi, più normalmente finiti in tali
condizioni per debiti che per essere frutto di raid bellicosi.
Anche all’interno dei popoli norreni, così come tra i Celti, la cultura era tenuta in gran conto: i poeti, in uno status
simile a quello reale e molto spesso i Godi, i capi locali che avevano
compiti giuridici e amministrativi (in particolare in Islanda) venivano
scelti tra i sacerdoti della religione
odinica, considerati come esseri che avevano un rapporto speciale con
gli dei. Di fatto, però, il vero potere si basava sul possesso di terra e
sul numero di capi di bestiame allevati o, nel caso dei commercianti,
sul valore delle loro ricchezze[6].
Insomma, anche in questo caso siamo di
fronte ad una società eminentemente agricolo-commerciale e solo
occasionalmente guerriera.
Per molti versi, le caratteristiche meno “marziali” di quanto certa epica hollywoodiana vorrebbe far credere su Celti e soprattutto Vichinghi, si riflettono sulla condizione della donna in entrambe le società.
Sebbene le fonti classiche (latine e
greche) non ci dicano molto sulle donne nella società celtica, sia dalle
saghe che dai reperti archeologici possiamo evincere che esse
godessero, in paragone al mondo classico mediterraneo, di libertà
notevoli e, in alcune occasioni, anche di grande potenza: certamente
tutta la produzione alimentare e l’intera gamma della produzione
artigianale (ceramica, vimini, lavorazione del cuoio, tessitura delle
stoffe) erano, infatti, loro appannaggio, spesso portando a notevoli
ricchezze e, come visto, la ricchezza portava a potere politico, così
che non sono infrequenti i casi di capiclan donne o, addirittura, di
regine (si pensi a Boudica) nel corso della storia celtica. Sebbene
siano probabilmente erronee le idee di una poligamia sia maschile che
femminile, anche il matrimonio era visto più in forma di
collaborazione paritaria rispetto al modello di proprietà dei Greci e
dei Romani, una collaborazione consensuale che poteva essere interrotta
in qualsiasi momento anche da parte della donna, che aveva la piena
possibilità di lasciare un cattivo matrimonio portando con sé tutto
quello che aveva portato in dote. e se è, altresì, falso dire che il
mondo celtico fosse matriarcale, nondimeno la discendenza matrilineare
era importante quanto e forse più di quella della linea maschile[7].
Il campo in cui l’alta considerazione delle donne si esprimeva più chiaramente era, però, quello religioso.
Come è noto, nell’antica società celtica
i druidi e le druidesse formavano una élite intellettuale esperta, dopo
uno studio ventennale, di letteratura, poesia, storia, legge, astronomia, erboristeria e medicina e, naturalmente di tutto quanto riguardasse la sfera del sacro.
Nei primi documenti romani riguardanti i Celti non si fa menzione, come giustamente osserva Jones[8],
di figure sacerdotali femminili, probabilmente a causa
dell’impossibilità per gli scrittori di Roma di concepire una
indifferenziazione sessuale nelle cariche pubbliche ma, finalmente, nel I
secolo d.C., è Tacito che ci informa che “i Celti non facevano alcuna distinzione tra governanti maschi e femmine“[9].
Essendo quella celtica una cultura orale, è difficile per noi oggi
comprendere se tale governo fosse soprattutto spirituale o vi fosse una
commistione tra potere religioso e temporale. Di fatto, alcune sepolture
trovate a Vix e Reinham mostrano che le donne celtiche, in alcuni casi,
potevano esercitare un forte potere politico, ma sono soprattutto le
saghe come il Mito di Finn a dirci della presenza di druidesse e “donne
sagge” nel mondo celtico: veggenti, incantattrici e persino addette a
sacrifici sacrali sono comuni nelle leggende folkloristiche e ci dicono
di una totale pariteticità di ruoli spirituali tra uomini e donne[10] .
La situazione non è esattamente identica
nelle aree norrene. I ruoli di uomini e donne nella società norrena
erano ben distinti ed erano i primi ad avere il dominio: le donne
difficilmente partecipavano alle incursioni (anche se chiaramente
parteciparono a viaggi di esplorazione e insediamento in posti come
Islanda e Vinland) e alcuni comportamenti “mascolini” (indossare abiti
maschili, tagliarsi i capelli corti, portare armi) erano loro
severamente vietati dalla legge. Difficilmente partecipavano
all’attività politica (non potevano essere Godi o giudici), di norma non
potevano parlare nel “Thing” (assembla di clan) e, formalmente erano
sottoposte all’autorità paterna. Ugualmente, però, è impossibile non
vedere come le donne fossero molto rispettate nella società vichinga e
avessero una grande libertà, soprattutto se paragonata ad altre società
europee di quel periodo: gestivano le finanze della famiglia, dirigevano
la fattoria in assenza del marito, in caso di vedovanza potevano
diventare ricche e importanti proprietarie terriere ed erano ampiamente
legalmente protette da una vasta gamma di attenzioni indesiderate.
Significativo è che i personaggi femminili delle saghe siano lodati per
la bellezza ma più spesso per la loro saggezza: in moltissimi casi
emerge come siano le donne il potere neppure troppo occulto dietro le
decisioni maschili e come la loro influenza sia quasi sempre positiva.
Anche all’interno del nucleo familiare una donna poteva usare la
minaccia di divorzio come un mezzo per stimolare il marito in azione:
ottenere il divorzio era relativamente facile e poteva dar luogo a gravi
oneri finanziari per il marito. Inoltre, le donne erano spesso viste
come depositarie della magia “bianca” (e, come tali, erano spesso temute
anche dai personaggi più importanti del “Thing” dei quali diventavano
ascoltate consigliere) e delle conoscenze medico-erboristiche di origine
divina[11].
In entrambe le società, dunque, è
possibile notare come, nell’immaginario collettivo, l’elemento femminile
avesse una sorta di “legame speciale” con il sacro. Da dove derivava
questa diffusa credenza? Naturalmente, come in ogni altra società umana,
lasciando da parte le caratteristiche tipicamente “lunari” di
riflessività, “insight” e intuitività, dal potere femminile per
eccellenza: quello generativo-creativo.
Non stupisce, allora, che, in un comune
gioco di riflessi tra “supra” e “infra”, sia possibile reperire elementi
chiaramente legati al femminino sacro in entrambe le culture.
All’interno del mondo celtico e della
sua ricchissima strutturazione religiosa, al di là di rielaborazioni
fantasiose e romanzesche su Avalon e le sue sacerdotesse e di teorie new e next age
di stampo Wicca, due figure sacre rispecchiano più di tutte le altre
(numerose) divinità femminili il femminino sacro declinato nel suo senso
generativo-maternale, con tutto ciò che, in termini di creazione e
alimentazione fisica e spirituale dell’essere umano ciò comporta:
Rhiannon e Cerridwen.
La dea Rhiannon è una dea lunare gallese
il cui nome significa Grande (o divina) Regina. Per molti versi è una
figura di potere assoluto, sovrana degli dei e, a livello
filosoficamente più alto, rappresentante simbolica della natura.
All’interno della religiosità
popolare la sua immagine è fortemente associata con gli equini: nella
storia di Rhiannon, così come raccontata dalle saghe folkloristiche i
cavalli svolgono un ruolo importante dal momento che essa prima cattura
l’attenzione del suo futuro sposo mentre è cavallo, cavalcando con lui
ne conquista l’amore e, allorché ingiustamente accusata (e poi
riabilitata) della morte del figlio da lui concepito, sopporta il peso
della punizione con grazia e dignità, mostrando, come sottolineato
proprio dai testi mitologici, una energia equina di resistenza[12]. Questo accostamento può apparire sconcertante, ma solo se decontestualizziamo il racconto dal suo background
d’origine, rappresentato da allevatori di pony: come dea dei cavalli,
infatti, Rhiannon viene a rappresentare sia la generatività naturale,
che perpetua le mandrie di generazione in generazione, sia il
sostentamento umano, che proprio su tale generatività si basa. Rhiannon
è, comunque, una divinità multifunzionale, che racchiude in sé anche il
senso dell’ordine naturale delle cose e della giustizia distributiva e
retributiva maternale propria, appunto, della natura così come percepita
dai Celti con la sua capacità di trascendere l’ingiustizia, avendo compassione e comprensione per coloro che falsamente l’accusano.
Ancora in sintonia con l’immagine della
madre, la dea è nota per avere uccelli magici che cantano canzoni
incantate che riportano sonni tranquilli agli esseri umani (i suoi
figli) e, infine, ritornando al suo ruolo creativo anche sul piano
simbolico, agisce come una Musa, portando l’energia illuminante di
ispirazione per scrittori, poeti, musicisti e artisti[13].
Si è già altrove avuto modo di osservare
come, però, la figura della “dea madre” non sia sempre positiva a tutto
tondo, includendo, nella sua valenza simbolica di rappresentante della
natura, anche tutti quegli aspetti violenti e pericolosi propri della
natura stessa e incarnando il pericolo del potere femminile di stampo
sessuale.
Ebbene, nella mitologia celtica, in
particolare gallese, l’aspetto più oscuro della dea è rappresentato da
Cerridwen, la vegliarda che ha poteri di profezia ed è custode del
calderone della conoscenza e dell’ispirazione negli Inferi. Come è
tipico delle dee celtiche, essa ha due figli: la figlia Crearwy è giusta
e solare e il figlio Afagddu (chiamato anche Morfran) è scuro, brutto e
malvagio, a voler simboleggiare la maternità incondizionata di tutto il
genere umano e la dedizione maternale della dea verso chiunque[14].
Perché, dunque, si è parlato di “lato oscuro”?
Perché Cerridwen incarna il lato
“stregonesco” e sessuale (quindi potenzialmente pericoloso rispetto a
Rhiannon, nella quale questo aspetto viene “depotenziato” con
l’affermazione di una sua mai completamente delineata verginità) della
dea madre a partire dalla prima leggenda fondativa che la riguarda
contenuta nel Mabinogion, il ciclo dei miti gallesi: in esso si
racconta come la dea fermenti una pozione nel suo calderone magico per
darla al figlio Afagddu e migliorarne le fattezze; avendo posto il
giovane Gwion a custodia del calderone, tre gocce della sostanza in esso
contenuta cadono su un dito del ragazzo, che diventa onnisciente e
viene per questo perseguitato dalla dea attraverso un ciclo di stagioni
fino a quando, sotto forma di una gallina, essa non riesce a catturalo e
ingoiarlo mentre si nasconde tramutato in una spiga di grano, finendo
nove mesi dopo, per partorire Taliesen, il più grande di tutti i poeti
gallesi[15].
Come è facile notare, le istanze di
trasformazione sono molto presenti lungo tutta la leggenda, con i due
protagonisti che si mutano in un numero notevole di animali e piante,
con un forte simbolismo legato alle trasformazioni cicliche della natura
e del mondo, ma anche altri elementi rivestono un notevole interesse:
in particolare, allorché, dopo la nascita di Taliesen la dea contempla
l’uccisione del bambino, ma, cambiando idea, decide invece di gettarlo
in mare, dove è salvato dal principe celtico Elffin, risulta evidente il
rimando ai cicli cosmici di morte e rinascita, dei quali, tra l’altro,
il calderone sacro della dea (che, secondo alcuni, sarà il primo nucleo
del mito del Graal), risulta, con il suo potere rigenerativo, paradigma
ultimativo[16].
Dunque, nella cultura celtica, la figura
della dea madre, epitome del femminino sacro, risulta ben presente, ma
anche multiforme e sfaccettata, specchio di una società in cui la donna
ha grande possibilità di movimento e, conseguentemente, di espressione
di tutti gli aspetti del dominio lunare.
Nel mondo norreno, indubbiamente
caratterizzato da aspetti meno filosofico-speculativi e più pratici,
tutto si semplifica notevolmente e la figura della dea madre diviene più
lineare e a tutto tondo, venendo incarnata da Frigga.
Frigga (noto anche come Frigg,
“l’amata”) era la dea dell’amore coniugale, del matrimonio e del
destino, la moglie del potente signore degli dei Odino. Responsabile
della tessitura delle nuvole (e quindi, in un tipico attributo della dea
madre, del sole e della pioggia, quindi della fertilità dei raccolti), e
dei destini di tutti i viventi, Frigga era una veggente (sebbene non
potesse cambiare gli eventi che vedeva) ed era, con palese riferimento
lunare, la dea della notte, perché proprio di notte, in un richiamo
sessuale “pacificato” (rispetto alla sessualità “pericolosa” e
conturbante, che era appannaggio di Freya, dea della bellezza sensuale),
dispensava la vita, tanto che la sua benedizione veniva invocata dalle
partorienti.
Madre amorevole di tutto il creato, la
sua capacità di vedere nel futuro le avrebbe causato il più grande
dolore, avendo previsto la morte del suo figlio prediletto Baldur: pur
sapendo di non poter cambiare il suo destino, Frigga aveva fatto
promettere a tutte le cose di non fare del male al figlio, ma purtroppo
aveva trascurato una cosa, il vischio, che sembrava troppo
insignificante per essere pericoloso e il malvagio Loki, scoperta questa
dimenticanza, aveva collocato nelle mani di Hodor, fratello di Baldur,
una freccia di vischio, facendogliela scagliare, durante una sessione di
apprendimento di tiro con l’arco, nel cuore del “più perfetto tra gli
dei”[17].
In alcune versioni del mito, a questo punto, interviene un’altra
caratteristica della “dea madre” Frigga, quella rigenerativa (della
natura, dei frutti della terra, etc.), che riesce a riportare Baldur in
vita, mentre un’altra caratteristica è presente in tutte le saghe che la
riguardano, quella di fornire nutrimento materno agli esseri umani,
tanto che in Germania veniva venerata come la dea Holda o Bertha (la dea
dell’allattamento e dei raccolti), in seguito modello per la favola di
“Mamma Oca”.
Infine, all’apice dei suoi tratti
simbolici, Frigga era anche dea della fertilità femminile e del
matrimonio e, in quanto tale, era pregata dalle mogli sterili e dalle
ragazze in età da marito[18].
[3] K. Ralls-MacLeod, I. Robertson, The Quest for the Celtic Key, Luath Press Limited 2005, pp. 49 ss.
[5] J. A. MacCulloch, The Religion of the Ancient Celts, General Books LLC 2010, pp.23-24
[7] P. Berresford Ellis, Celtic Women: Women in Celtic Society & Literature, Trans-Atlantic Pub. 1996, passim
[8] L. Jones, Druid-Shaman-Priest: Metaphors of Celtic Paganism, Hisarlik Press 1998, pp. 45 ss.
[9] Citato ivi, p.48
[10] P. Berresford Ellis, Citato, p.77
[12] M.J. Aldhouse-Green, Celtic Goddesses: Warriors, Virgins and Mothers, George Braziller 1996, pp. 107 ss.
[13] Ivi, pp. 121 ss.
[14]Ivi, pp. 172 ss.
[15] B. Auset, The Goddess Guide: Exploring the Attributes and Correspondences of the Divine Feminine, Llewellyn Publications 2009, pp.103-106
[17] M. Pope Osborne, Favorite Norse Myths, Scholastic 2001, pp. 51-52
Tratto da http://www.centrostudilaruna.it/il-culto-della-dea-madre-in-nord-europa.html
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